Ho iniziato a scrivere questo post sulla gentilezza un lunedì mattina, alle 6.21.
Avevo così tante cose da dire e così poco tempo per scriverle tutte, che ho puntato la sveglia un’ora prima, mi sono lavata la faccia con acqua freddissima, ho fatto la pipì più veloce della storia e sono corsa in cucina. Fuori era buio, ma tre finestre del palazzo davanti a me erano accese. Per qualche secondo, come ogni mattina, ho appiccicato il naso al lucernario e sono stata in quelle vite, in quelle cucine illuminate da lampadine calde, nell’odore di dormito sui pigiami degli altri, davanti alla fiamma blu sotto la caffettiera. Ovviamente non c’era tempo per la colazione: avevo un post da scrivere e un’oretta scarsa prima che tutta la città si svegliasse definitivamente.
Mi sono seduta faccia a faccia col monitor luminoso, ho aperto Coffee&Mattarello.
Il cursore lampeggiava euforico, le mie dita accarezzavano i bordi dei tasti e…niente.
Non stava succedendo proprio niente.
Tutti i concetti, i collegamenti, i paragrafi che mi ero appuntata in testa erano magicamente svaniti.
Livello di scemenza autopercepita: inimmaginabile.
La verità è che stavo imparando la mia ultima lezione sulla gentilezza, ma l’ho capito solo dopo.
Si può scrivere qualcosa di gentile dopo aver dormito 5 ore e un po’, con lo stomaco vuoto e la fretta di finire? Si può praticare gentilezza verso il fuori, quando non sei riuscita a girare il miscelatore del lavandino sull’acqua tiepida e ti sei congelata gli occhi o quando hai pensato che mettere su il bollitore per te stessa – supereroinadistocazzo – fosse inutile?
Ma và, oggi salto, ce la faccio.
Certo che ce la fai, ma poi ruggisci tutti i santi del calendario al primo malcapitato che non attraversa sulle strisce. E se ha saltato la colazione pure lui, che fate? Vi date pugni su corso Svizzera attraverso il finestrino?
La gentilezza è come disegnare un cerchio con l’indice, che parte dalla tua clavicola sinistra, si sposta verso la spalla, si allarga davanti al tuo naso, lo oltrepassa, torna alla clavicola destra e si chiude.
Se pratichi anche gentilezza su te stesso, puoi continuare il giro e spargerla, andando oltre il tuo naso. Ovunque togli gentilezza, il cerchio diventa zoppo.
Durante tutta la mia infanzia si doveva sempre dire “grazie” e ” per favore”, le spalle non si alzavano mai e per nessun motivo, si doveva salutare forte “BUONGIORNO! BUONASERA!”, mica come se uno si stesse vergognando. Ho detto la mia prima parolaccia in casa quando già ero all’università e ancora oggi, quando me ne scappa una, arriva puntualissimo un: “Bel’afè. Ti abbiamo fatto studiare per parlare così?”.
La gentilezza e la buona educazione si sovrapponevano creando strutture e innescando cortocircuiti assurdi anche per una bambina con le trecce e le ginocchia piene di croste come me.
C’erano le signore che ti sorridevano in panetteria e poi continuavano a guardarti dalla vetrina quando uscivi, parlando fitto fitto tra loro, fino a quando non avevi girato l’angolo della strada.
C’era il prete che veniva a casa, accarezzava tutti e spargeva benedizioni, mi chiedeva che classe facessi e poi diceva ai grandi: “Ma no, no, si immagini”, una mano la muoveva a destra e sinistra e con l’altra si metteva le 20.000 lire in tasca.
C’erano nuore che sorridevano alle suocere, facendo poi scongiuri e linguacce appena si giravano.
C’era la coppia che non si parlava, ma che andava in piazza la domenica sottobraccio e guardarli da lontano sembravano gentili, sì, lei con quelle gonne a fiori e lui con la camicia imbragata, ma appena ti avvicinavi avevano un odore strano, di stanchezza mista a sigarette e fazzoletti usati.
C’erano figli che baciavano le fronti dei padri nelle bare, anche se quei padri li avevano dimenticati da anni. C’era tantissima buona educazione che colmava piscine di gentilezza annerite, bruciate dal sole.
Che mi piaccia o no, sono figlia di quel modo lì di fare.
Mi porto dietro frange di BUONGIORNO! e BUONASERA!, dico ancora tantissimi “grazie”, anche se poi ogni tanto le spalle le alzo e un vaffanculo in grassetto – mamma, non stai leggendo, vero? – lo trovo sacrosanto e liberatorio, quando ci vuole.
La differenza è che la buona educazione te la somministrano a dosi, da quando incominci a parlare. Diventa un rituale arzigogolato della tua vita, una sorta di lettera formale molto ben scritta, piacevole e corretta, ma un po’ rigida e asettica.
La gentilezza è la sua sorella scapigliata, quella che ti fa fare cose di cui sul momento ti vergogni, ma che poi ti fanno sentire decisamente bene, una specie di Pollyanna metropolitana senza calzamaglia.
Qui in città gentilezza spesso significa fare squadra con gli sconosciuti, un fronte comune contro le brutture del comportamento umano.
La primissima estate a Torino, una signora mi ha salvato il telefono da un simpaticone che cercava di sfilarmelo dalla tasca, dicendomi senza mezzi termini di farmi furba e di metterlo in un altro posto. Io ho balbettato un “G-grazie mille” e sono scappata alla fermata successiva, anche se non era proprio la mia.
L’altro giorno ho superato ogni linea che delimita i fatti miei, fermando una ragazza e dicendole: “Scusami, volevo solo dirti che hai lo zaino aperto!”. Ho stretto un po’ i denti subito dopo averlo detto, pensando che mi desse una rispostaccia e invece mi ha ringraziato per tutto l’attraversamento pedonale.
La gentilezza metropolitana non è sempre facilissima, ma è necessaria per combattere silenziosamente l’arroganza, la prevaricazione, la lamentela, che in mezzo al cemento danno il loro peggio.
Come i clacson quando non parti subitissimo al verde, le sigarette buttate dal finestrino, la signora ingrugnita del supermercato:
“Oh ma com’è qui sta cosa degli spinaci? Dove sta il numero? Diavolerieee! Cosa schiaccio adesso?”
“Guardi, signora, è il 128. Era solo un po’ nascosto dall’altro cartello…”
“Gnnnfff. Diavolerie.”
“Buona giornata…”
“Ggggnnnfff”
No, la gentilezza non sempre genera gentilezza nell’immediato. Per metterla in circolo bisogna allenarsi e riversarne dosi spropositate nell’universo 🙂
Anche le cotture possono essere gentili. Non c’è sempre bisogno di tutto quell’unto, di quella dose eccessiva di spezie, di sale, di gusto grosso, roboante. A volte il cibo può essere soffice, accarezzare la bocca dall’interno, finire nello stomaco con un atterraggio morbido.
La frittata al vapore è una stranezza che mi è venuta in mente in un giorno di pioggia e che ho provato a fare quasi per gioco con una scommessa: non cuocere nulla prima.
Unire tutto a crudo e lasciare che gli ingredienti si amalgamassero tra loro lentamente, che ognuno prendesse un po’ il sapore dell’altro, mentre il vapore li seccava piano piano.
La consistenza è di una gentilezza meravigliosa, il sapore delicato e pieno.
Io ci credo ciecamente, ancora di più dopo averla presa a morsi.
Credo che la gentilezza sia la forma più intensa di intelligenza sociale e, se proprio non ce la fa ad essere contagiosa, almeno è così in disuso che stupisce.
E – prima o dopo, in qualche modo strano, quando meno te lo aspetti – ritorna.
FRITTATA AL VAPORE
CON SPINACI E PATATE DOLCI
Per due persone:
3 uova
una manciata di spinaci freschi
300 g di patate dolci
3 cucchiai di parmigiano
2 cucchiai d’olio
sale
pepe nero
Lavare bene gli spinaci e tritarli grossolanamente.
Lavare, sbucciare e grattugiare le patate dolci.
Sbattere le uova con il sale, il pepe e il parmigiano e l’olio, poi unire le verdure.
Coprire la vaporiera con un foglio di carta forno bagnata e strizzata, versare la frittata e cuocere al vapore per 30 minuti circa, con il coperchio spostato a metà.
È ottima anche fredda, in mezzo a due fette di pane integrale.
Buongiorno Marzia, leggo e mi ritrovo nelle tue parole … è vero, anche io sono figlia della gentilezza e della buona educazione, in alcuni casi un po’ forzata, pedante e poco sincera. In ogni caso i grazie prego scusi tornerò non sono mai mancati e mai mancheranno, fanno proprio parte del DNA ormai! Ora non resta che provare la tua frittata al vapore , sono molto curiosa !
A presto, Chiara .
Chiara, che bello trovarti qui! Hai ragione: l’educazione non dovrebbe mai passare di moda, è una sorta di primo passo formale verso un mondo un po’ più gentile. Prova la frittata: è delicata, ma piena di carattere. Mi farai sapere 🙂 nel frattempo, un abbraccio stretto!