PREMESSA UNO: la prima cosa che serve per questa storia è sapere che questo angolo di cucina, che ormai ha qualche anno, ha sempre rifuggito quelle che in gergo tecnico si dicono “collaborazioni” tra foodblogger e aziende. La traduzione di questo meccanismo, senza troppi giri di parole è: l’azienda X manda a casa del blogger tot prodotti che il blogger in questione inserisce nelle sue ricette citandone la provenienza e inserendo il marchio dell’azienda X in questione lì a destra. Risulrato: azienda felice, blogger pure, lettore un po’ così, visto che da una parte conosce prodotti nuovi, ma dall’altra qualche volta si trova a fare i conti con ricette che riportano ingredienti del tipo: “250 g della ottima e meravigliosa farina dell’azienda X, che si autoimpasta autonomamente e vi fa un caffè nell’attesa della lievitazione ecc.”
Non c’è niente di male in tutto questo e ben venga se produttori (meglio se quelli seri) e foodblogger (idem) dialogano e si trovano bene insieme
Il fatto è che in questo angolo di cucina piccolopiccolo il punto della libertà di scelta degli ingredienti è imprescindibile. Ciò vuol dire che se qualcuno mi domanda quali preferisco e dove vado a fare la spesa sono ben lieta di rispondere, ma se la cosa non è richiesta non ritengo indispensabile dover specificare vitamorteemiracoli del pacco di farina che sto utilizzando. Viceversa, chiunque passa di qui può replicare una ricetta con gli ingredienti dai marchi che più gli aggradano, senza dover temere che la torta sprofondi o la crema non si addensi perché si è usata la farina X piuttosto che quella Y.
Qui non ci sono scambi di prodotti vs visibilità dei marchi, non esistono discorsi commerciali.
Tra l’altro, sono una diffidente per natura ed un’accanita leggietichette (ho constatato che non c’è cura per quest’ultima patologia). Questo complica ulteriormente le cose per chi pensa di poter convincermi sul perché dovrei mettere un marchio qui a destra e spergiurare che sia il migliore che abbia mai provato, quando magari manco l’avevo mai sentito prima.
Cucinate felicemente e soprattutto con i prodotti che vi piacciono, decidete da voi cosa acquistare e perché. Amen 🙂
PREMESSA DUE (e chi di voi ha la pazienza di sopportarmi da più tempo già la sa): la sottoscritta è una studentessa di cinema (ormai specialistica!) che si divide -non proprio equamente – tra video, fotografie e cucina e qualche volta capita che queste tre cose coincidano. Questa è una di quelle volte. Quelle volte di solito sono frenetiche, appassionate e hanno a che fare con una bellissima realtà che si chiama Optima Carne.
Conosco Alberto da quando gli rispondevo al telefono di casa e gli passavo il mio papà, che se l’aveva cercato era di sicuro per qualche vitellino che magari mangiava poco e a vederlo sembrava un po’ ammaccato. Alberto veniva e lo beccava subito, si trattasse di un problema di stomaco, polmoni o altro.
Mia nonna invece di chiamarlo Alberto lo chiamava ” ‘L dotor dj bucin” e anche adesso, dopo un bel po’ di anni, lo chiama esclusivamente per cognome. C’è una sorta di gratitudine e deferenza dei vecchi di campagna nei confronti dei veterinari che si sono presi cura dei loro animali. Al veterinario si fa sempre il caffè nel servizio buono, quello degli ospiti.
E non si tratta di un rispetto formale, ma di un tipo di riconoscenza oggi in via d’estinzione, un rispetto vero, forte e pulito, di chi si ricorda il sollievo di aver salvato la vacca e il vitello grazie ad un cesareo. E magari quello è poi diventato un gran bel vitello, pensa non fosse arrivato il veterinario.
Fatto sta che Alberto ha girato sempre per casa nostra, da quando ero alta così.
Anni e anni dopo mi avrebbe chiesto di collaborare al suo progetto più matto e appassionato: Optima Carne, per l’appunto. Dico matto, perché lui è uno di quei personaggi che hanno da qualche parte, nascosta sotto la pelle, una dose di pazzia buona e inesauribile.
La sua idea è quella di tornare ad allevare bovini come facevano i nostri nonni, senza forzature alimentari, ma coi tempi giusti. Piccoli gruppi di animali, ampi spazi in cui possano vivere, lettiere in paglia e non stalle sovraffollate in cui coricarsi le une addosso alle altre nei propri escrementi. Poi l’alimentazione naturale con mais, crusca, orzo, pisello proteico, fave messe a mollo nell’acqua, fieno, nessun mangime preconfezionato o scarti industriali nella razione alimentare. L’attenzione anche in fase di macellazione, gli animali portati singolarmente e subito abbattuti senza tempi di attesa, per non creare il minimo stress.
Tutto questo all’interno di un mercato che si prefigge l’obiettivo opposto: quello di ingrassare sempre più animali nel minor tempo tempo possibile, con tutto ciò che ne deriva: dall’unifeed (un mangime standard addizionato con integratori) ad eliminare la fase della frollatura, fondamentale, ma per il business inutile e costosa.
Non che all’inizio non ci abbia pensato più di una volta sopra, eh, prima di dirgli di sì.
Ma lui mi ha fregato presto, perché oltre a essere matto è una persona estremamente vera e leale. Una di quelle che sanno di buono, non so se rendo l’idea 🙂 se almeno un po’ l’ho resa, prendetevi un attimo per leggere di questo progetto qui.
Mi sono quindi lanciata di testa in questa avventura da ormai due anni (…pensate quanto ho aspettato per parlarvene!) insieme alle altre tre femmine che viaggiano sempre con me (Sony, Canon e Fuji 🙂 ).
Così lo scorso weekend siamo finiti a Roma, precisamente nel quartiere della Garbatella, ospiti di Culinaria, tre giorni dedicati al buon cibo fatto bene. Inutile starvi a raccontare che mi sono persa tra le farine e le spezie, per riemergere con un pranzo a base di pizza&mortazza e ri-perdermi nuovamente nel reparto libri dedicati al cibo 🙂
Tra uno stand e l’altro la meraviglia più autentica è stata quella di un incontro con Fede-Popeya e tribù, direttamente da Collefiorito: un abbraccio stretto e sincero – finalmente live! – la sensazione di parlare come se ci conoscessimo da sempre, la voglia di rivedersi presto e con più calma. Pezzi di emozione. Pura. Come il sapore di questa ricetta.
Penso sempre di più che cucinare sia un atto di vita. Cuciniamo mettendoci dentro tutto quello che in un modo o nell’altro ci arriva sotto la pelle.
Con questo Sushi “piemontesizzato” è andata proprio così: niente salse, niente fronzoli.
Solo la purezza del gusto, a crudo.
La purezza della passione “matta” di Alberto.
La purezza delle emozioni nude dell’incontro con “la mia tribù” di Collefiorito.
Preparare il riso: versarlo in una ciotola, coprirlo d’acqua e con la mano mescolare per eliminare l’amido. Con l’aiuto di un colino, versare via l’acqua (che sarà diventata bianca) e ripetere l’operazione altre 3 volte. Metterlo poi in un tegame con l’acqua, coprire e portare a bollore. Ridurre la fiamma e lasciare cuocere coperto per 10 minuti. Nel frattempo preparare il condimento mescolando aceto, zucchero e un pizzico di sale. Trascorso il tempo di cottura, trasferire il riso in un capiente piatto profondo (non metallico) e condirlo. Mescolare delicatamente con un cucchiaio di legno dal basso verso l’alto e lasciare intiepidire.
Nel frattempo condire la carne con un cucchiaino di olio extravergine d’oliva e un pizzico di sale.
Poi piegare un foglio di alga nori a metà per il lato lungo e premendo lungo la piega, dividere il foglio in due parti uguali. Sulla fiamma del gas tostare per pochi secondi la metà del foglio, poi adagiarla sullo stuino di bambù con il lato lungo davanti a voi.
Distribuire due cucchiai circa di riso sul foglio di alga (non troppo, mi raccomando!), lasciando un bordo di 1 cm sul lato opposto. Disporre poi la carne in una riga continua, dal lato lungo sulla vostra parte (è più difficile a dirsi che a farsi 🙂 ):
Con l’aiuto dello stuoino, arrotolare lentamente il foglio di nori, premendo leggermente per far aderire l’alga al ripieno. Sigillare poi il rotolo premendo bene sul bordo lasciato senza ripieno. Trasferire il rotolo su un tagliere, col bordo sigillato verso il basso, bagnare la lama di un coltello affilato e tagliare i rotolini.
Servire nudi e crudi 🙂
beh marziuccia, io sono vegetariana e, certo, cucinare è atto di vita, ma che sia vita per tutti 🙂 però, hai ragione: io non mi sento di cucinare animali, così come tu ti senti di utilizzare certi prodotti, è sempre una questione di coerenza e di onestà verso se stessi! comunque questi maki ti sono venuti strabenissimo!!
Ciao Pata 🙂 la questione del mangiare o meno carne è sempre molto molto delicata…lo sai quanto io ammiri i tuoi piatti, Streghetta 🙂 Da figlia di allevatori "di una volta" sono sempre stata ritenuta un po' la "degenere" di casa, perché di carne ne consumo pochissima, non ne sento il bisogno e anche qui sul blog ci sono forse solo due ricette al riguardo.
Invece rinunciare a latte e uova sarebbe per me arduo e quasi impossibile 🙂
Credo che se si faccia la scelta consapevole di consumare carne, occorra prendersi le responsabilità di questo gesto e scegliere…non tutti gli allevatori sono esseri spietati, una manciata di loro – piccoli, ma irriducibili – crede fermamente nel benessere animale, nel rispetto dei ritmi della natura e cerca di allevare nel modo più sano e naturale possibile.
Gli allevatori "di una volta" sono quelli che vivono con gli animali ogni giorno e conoscono nomi, abitudini e carattere di ogni singolo animale che possiedono…miei nonni ancora oggi si commuovono a ricordare le mucche in montagna, i parti più delicati, le "parentele" tra vitellini…per loro il rispetto dell'animale è la prima cosa, una regola inderogabile: non conto le notti che hanno passato insonni pensando magari a vegliare un vitellino ammalato o aspettando un parto difficile. Il rapporto che si crea è davvero incredibile.
Quando penso a questo discorso mi viene sempre in mente il popolo dei Lakhota (di cui sono appassionatissima), che cacciava sì i bisonti, ma soltanto quelli che realmente servivano alla sopravvivenza del popolo e soprattutto del bisonte utilizzava tutto, dalla carne alla pelle per i teepee, alle ossa per gli utensili di tutti i giorni.
Erano carnivori, eppure il rispetto per la natura, animali e uomini era assoluto, qualcosa di ammirevole.
Oggi non abbiamo più bisogno di cacciare, e questa è una gran cosa 🙂
Però abbiamo la libertà di scegliere. Prima di tutto se consumare oppure no la carne. E, se sì, il DOVERE di chiederci sempre da dove proviene, com'è stata allevata.
Rispetto tantissimo la tua scelta, Pata e spero che la questione mangiare/non mangiare carne diventi sempre meno uno scontro e sempre più un dialogo rispettoso tra due diverse scelte alimentari.
Adesso corro a vedere cosa si combina nella tua cucina, però 🙂
Grazie per aver letto fino a qui e un abbraccio stretto!
Popeya,
il post l'ho letto questa mattina alle 6.stavo per risponderti ma dal mini letto ha iniziato a spuntare una manina accompagnata da qualcosa simile a un pianto che tradotto voleva dire: aò me voi venì a prende????
Finalmente qualcuno che scrive sta cosa delle tremila marche (mi sentivo aliena a pensarlo solo io.quasi ti senti in colpa se non hai in casa quella farina di quella azienda. quasi ti vogliono convincere che non ne puoi fare senza.
Condivido completamente quello che dici circa la carne.e infatti la mia politica di acquisto mira a comprare sempre carne di buona qualità, pagandola di più rispetto a quella dei supermercati ma credo sia un atto rispettoso nei confronti dell'animale. un po' come le uova. preferisco pagarle di più e sapere che quella gallina ha vissuto una vita dignitosa (da gallina) e felice in mezzo all'erba 😉
Io cmq tifo la carne cruda sempre di più e se condita con olio e sale è ancora più buona (come qualcuno suggerisce) 😉
Ciao amica bella.
Davvero ottimi, secondo me migliori rispetto a qualsiasi sushi di pesce.
Grazie e benvenuto su queste pagine 🙂 a me, golosa inguaribile, piacciono entrambe le versioni…di certo qui c'è un bel po' di Piemonte, quindi ci sono più affezionata 🙂 a presto!
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